Il voltafaccia della senatrice (non più) di Forza Italia ci riporta alla mente tanti bellissimi esempi dal calcio italiano
La notte di Palazzo Madama del 19 gennaio ha avuto di sicuro il pathos come tratto dominante. Anche per chi in genere trascura la politica, è stato difficile non dare un occhio almeno una volta alla lunga diretta televisiva o agli aggiornamenti sul web. L’esito del voto, alla fine, è stato quello che quasi tutti si aspettavano: il premier Giuseppe Conte mantiene la maggioranza, tuttavia non così solida da impedire che si dimettesse una settimana dopo.
In un clima di endemica incertezza, ricorderemo quanto successo al Senato come un esempio di quella spettacolarizzazione della politica in cui l’Italia più volte ha toccato vette notevoli. Qui ha aiutato soprattutto il gioco di intrecci e riferimenti con l’altro caposaldo della cultura popolare italiana, il calcio. Il Var usato per confermare i voti di Ciampolillo e Nencini è già iconico, ma è “solo” uno dei tanti momenti di una serata degna di una regia di David Lynch per quanto è parsa surreale, considerando che era in gioco il governo del Paese. A dare il tocco di dramma c’è stato di sicuro il voto per la maggioranza da parte di Mariarosaria Rossi, che dopo il suo «sì» ha salutato l’intera aula se ne è andata via (lo stesso ha fatto anche Renata Polverini). Il gesto della (ora ex) senatrice di Forza Italia ha spiazzato i più, visto il suo legame di oltre dieci anni con Silvio Berlusconi, di cui è stata assistente, accompagnatrice e consigliera.
Il suo tradimento, esempio di un trasformismo politico con radici secolari, rimanda a tanti esempi scolpiti nella memoria calcistica italiana (non che il basket e gli altri sport siano da meno). Intorno a questi episodi si è costruita una buona fetta delle maggiori rivalità del nostro campionato e della loro narrazione. L’odio tra Juventus e Fiorentina deve tantissimo all’affaire Baggio, che spinse i tifosi viola a riversarsi a Piazza Savonarola, inferociti come ai tempi di colui da cui quel luogo ha preso il nome.

Poco importa che a tradire non sia stato il Divin Codino, restio a trasferirsi alla Juventus, bensì l’allora presidente Flavio Callisto Pontello, costretto a cederlo per fare cassa. «Noi faremo il possibile per accontentarlo ma io devo pensare alle squadre e non ai simboli. Se dovesse valer la pena cederlo non esiterei un momento», poi aveva aggiunto, «Sì, in questo caso Agnelli sarebbe il primo ad essere interpellato».

Semplicemente, per un tifoso, vedere il suo campione con indosso i colori del nemico provoca una reazione analoga a quando si viene toccati sul personale. Perdere certi giocatori spesso vuol dire perdere un pezzo più o meno consistente della propria identità. Questo può spiegare lo sdegno dei tifosi dell’Inter, quando si sono trovati contro Ronaldo in un derby in cui lui non solo segnò, ma ebbe perfino il coraggio di esultare per rispondere ai loro fischi. Lui, che per anni li aveva illuminati con il suo strapotere fisico e tecnico, e chissà quanto sarebbe andato avanti con entrambe le ginocchia sane, tornava a San Siro vestendo rossonero; sacrilegio è dire poco.
L’evoluzione del calcio come modello di business sta cercando di togliere a queste situazioni l’aura di tabù. Sarà comunque difficile, perché una cosa è intervenire su un sistema che lega squadre e giocatori, un’altra è provare a cambiare mentalità radicate profondamente nella cultura sportiva. Molti richiamano con nostalgia l’era del calcio romantico in cui prima c’erano i valori e poi il resto, anche se la domanda su quali siano i suoi limiti cronologici di rado trova una risposta univoca (ma sarebbe interessante anche capire cosa siano esattamente questi valori).
Dietro al passaggio di Baggio alla Juventus, per dire, c’erano necessità puramente economiche: pure allora, chi era meno forte da questo punto di vista doveva rassegnarsi a lasciar partire le proprie bandiere e il caso Baggio, per certi versi, ha fatto scuola. Chi tifa oggi per una medio-piccola lo sa: se per grazia divina capita uno bravo, neanche il tempo di due partite e già si parla di futura plusvalenza. Parlare di “bandiere” sta diventando sempre più anacronistico, quando capitalizzare sul talento appena se ne ha l’occasione è ormai l’unico modo per sopravvivere ad alti livelli.
L’idea romantica di tradimento in teoria sopravvivrebbe tra le grandi di Serie A, se non dominassero anche qui le logiche di convenienza. Si sceglie di cambiare aria quando viene offerto il contesto ideale per esprimersi al meglio e soprattutto dove è più probabile alzare un trofeo. In questo influisce e non poco il ruolo persuasivo degli agenti, che negli anni hanno visto alzarsi a dismisura le commissioni per i trasferimenti dei loro assistiti. Ognuno opera verso il massimo tornaconto personale. Come Gonzalo Higuaín quando è passato alla Juventus nell’estate 2016. Anche adesso che la carriera del Pipita è vicina a concludersi, riverbera ancora l’eco di quell’affare che molti hanno giudicato scandaloso.
I bianconeri, pagando la clausola rescissoria da 90 milioni di euro, avevano strappato al Napoli l’attaccante capace di segnare 36 gol nella precedente stagione. Higuaín non fece nulla per opporsi, pur avendo ancora due anni di contratto, e questo come prevedibile gli scatenò contro l’ira dei tifosi azzurri, aizzati dal presidente Aurelio De Laurentiis. Il rapper napoletano Vincenzo Mazzarella, meglio noto come Enzo Dong, gli ha perfino intitolato una canzone in cui “Higuaín” diventa metafora di traditore o «voltagabbana». Questa parola è spuntata più volte pure tra chi commentava a caldo il voto al Senato, come il portavoce dei gruppi parlamentari Giorgio Mulè secondo cui «la schiera dei voltagabbana d’accatto arricchisce di nuovi casi», di cui Mariarosaria Rossi è l’ultima, per ora. La senatrice, da un anno comunque lontana da Forza Italia, avrà avuto validi motivi per votare la fiducia a Giuseppe Conte; quanto validi, lo scopriremo vivendo.
Sulla bontà della scelta di Higuaín ci sono molti meno dubbi. A 30 anni gli serviva sfruttare al massimo gli ultimi anni da alti livelli che il corpo concedeva, e al Napoli non ci sarebbe probabilmente riuscito. Da questa convinzione è nato un dissidio logorante (per noi che abbiamo dovuto sorbircelo) con De Laurentiis che il Pipita, appena arrivato a Torino, ha chiarito con una frecciata molto diplomatica: «Mi ha spinto lui ad andarmene, il suo modo di pensare è completamente diverso dal mio». I fatti gli hanno dato ragione tutto sommato. Nella prima stagione alla Juventus, Higuaín è andato vicinissimo a vincere tutto, non fosse stato per la sciagurata notte di Cardiff. Già l’anno dopo, nonostante diversi gol decisivi (come questo nello scontro diretto con il Napoli al San Paolo), si avviava il suo declino. Il suo “tradimento” alla fine gli ha portato cinque trofei, con buona pace di chi come Enzo Dong preferisce «’Na squadra addo’ stong solo ij / Ca ‘na lot come Higuaín».
Non sempre va così, comunque. È il caso dell’anno al Milan di Leonardo Bonucci e del suo successivo ritorno alla Juventus. Qui il tempismo sta alla base di tutto. Arriva in rossonero nell’estate 2017 nel pieno del mercato faraonico della nuova proprietà cinese di Yonghong Li, quando sembra l’uomo ideale per «spostare gli equilibri». Poi, dopo una stagione molto deludente, torna ai bianconeri freschi dell’acquisto di Cristiano Ronaldo, mentre il Milan passa in mano al fondo Elliot, con prospettive opache per il futuro. Se non è un perfetto esempio di trasformismo all’italiana questo…
Questo pezzo si inserisce in un progetto condiviso con i nostri compagni della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano e coordinato dai colleghi di All’Ultimo Banco (che hanno raccolto qui una parte dei contributi sul tema) e Quote Rosa (qui e qui potete trovare gli altri).
2 pensieri riguardo “Mariarosaria Rossi, Higuaín e altri tradimenti”