Due carriere all’insegna della persistenza. Tra grandi vittorie e crisi di governo, c’è chi riesce ad andare avanti nonostante tutto. Ma è veramente possibile un confronto tra un presidente del Consiglio italiano e un allenatore di calcio francese?
Il paragone Giuseppe Conte – Arsène Wenger può sembrare azzardato, e per certi versi ridicolo tanto da rasentare l’assurdo. Cosa mai può avere in comune un avvocato e docente universitario divenuto presidente del Consiglio italiano con un mediocre ex calciatore francese che è rimasto seduto sulla stessa panchina per 22 anni? Certo, guardando i contorni delle loro storie non esiste alcuna correlazione, eccezion fatta per lo stile giacca e cravatta. Tuttavia, andando ad analizzare le storie professionali di questi due personaggi, specie in tempo di crisi di governo quando il dubbio è il piatto forte del giorno, possiamo cogliere alcune similitudini che ci faranno ammettere che «bé, forse non sono poi così diversi».

Eccolo là. L’ennesimo calciatore (che tra i professionisti ha collezionato solo una manciata di presenze) che a fine carriera si reinventa allenatore. La prima esperienza al Nancy da tecnico non è da ricordare, ma al termine dei tre anni riceve comunque un’offerta di tutto rispetto: il Monaco. Affidandosi al talento straripante del giovane George Weah e alla continuità dei più esperti come Jurgen Klinsmann, Arsène diventa campione di Francia nella stagione 1987-1988 e vince la Coppa di Francia nel 1990-1991. Esonerato dopo un inizio di campionato disastroso nel settembre 1994, accetta di allenare i giapponesi del Nagoya Grampus per due anni, scomparendo dal radar del calcio europeo. E quindi? Cosa c’entra tutto questo con il premier Conte? Nulla, ma serve per creare un minimo di contesto intorno a mister Wenger.

Anche gli inizi del presidente Giuseppe Conte non sono poi così male. Avvocato dal ’92, è professore associato di diritto privato dal 2000 e professore ordinario dal 2002. Al contrario di Wenger, che dopo i successi in patria ha deciso di muoversi verso l’oriente interrompendo la scalata continentale, Conte ha sempre cercato di accentrare la propria figura professionale, di elevarla costantemente. Ha insegnato nelle università di Roma, Sassari, Firenze e alla Luiss di Roma. Dal 2013 è stato eletto dalla Camera dei deputati componente laico del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, di cui poi sarà vicepresidente. Insomma, puntare sempre più in alto.
Ed è proprio qua che inizia la nostra riflessione. È vero, Wenger aveva già vinto un campionato, ma il suo essere francese e il suo migrare in Giappone non lo avevano ancora reso abbastanza popolare nei Paesi oltremanica. E Conte era uno stimato professore di diritto, ma comunque sempre lontano dalle telecamere ed estraneo quanto basta alla politica reale italiana. Perciò, quando nell’estate del ’96 giravano voci su un possibile ingaggio di Arsène come sostituto di Bruce Rioch, la stampa britannica si domandava «Arsène, who?», e quando Conte nel febbraio del 2018 venne proposto dall’alleanza giallo-verde come presidente del Consiglio gli italiani correvano a leggere sul web chi fosse e, magari, il suo (controverso) curriculum. I primi tempi passano un po’ in sordina per entrambi. Il francese, primo allenatore dell’Arsenal non britannico o irlandese, cerca di plasmare i gunners a propria immagine senza andare oltre il terzo posto in campionato, e l’italiano appare come un semplice burocrate, un intermediario di partiti per certi versi incompatibili. Un po’ come la Francia e l’Inghilterra. Poi però cominciano a navigare, spiegando le vele e cercando di catturare i venti più propizi. Per Wenger questi si chiamavano Patrick Vieira, Emmanuel Petit, Marc Overmars, e i due più avanzati Nicolas Anelka e Dennis Bergkamp. Per Conte erano invece le richieste del popolo pentastellato e leghista: lotta all’immigrazione clandestina, alla corruzione, diritto all’autodifesa e riduzione delle tasse. Insomma, per entrambi delle potenti frecce al proprio arco, belle acuminate che però, se non ben gestite, rischiano di far male anche a chi dovrebbero invece proteggere.

Infatti, dopo l’inizio scoppiettante, un primo calo. Al double conquistato nella stagione ’97-’98, si sono aggiunte annate senza alcun trofeo da aggiungere alla bacheca, mentre per l’avvocato degli italiani iniziano i primi contrasti con la compagine verde. Ma si sa, l’alba arriva sempre dopo l’ora più buia della notte. Sol Campbell, Fredrik Ljunberg, Thierry Henry e Robert Pires sbarcano a Londra, mentre post Papeete Conte condanna le pretese avanzate dall’ex alleato Salvini mostrandosi al popolo italiano (non leghista) come un supereroe della democrazia. Il periodo d’oro è alle porte: Conte, confermato presidente del Consiglio anche nella nuova alleanza di governo giallo-rosso, vede nei primi mesi di pandemia i suoi consensi lievitare fino a raggiungere cifre mai immaginate al grido di ‘uniti ce la faremo’, mentre Wenger macina record con i suoi gunners. L’Arsenal degli invincibles nel 2003-2004 vince la Premier League restando imbattuto, l’anno successivo Arsène vince la sua quarta FA Cup diventando l’allenatore più vincente della storia del club, e nel 2005-2006 raggiunge la finale (la prima per l’Arsenal) di Champions League vinta poi dal Barcellona allo Stade de France di Parigi per 2 a 1 (Eto’o, Belletti; Campbell). Poi, di nuovo il buio. Un’estate all’insegna delle incomprensioni e delle discoteche aperte, un ritorno a scuola che però vengono chiuse subito dopo, zone gialle-arancioni-rosse, Dpcm qua e là, chiudiamo tutto ma domani riapriamo, e i londinesi che non sanno più vincere.
«A volte, forse, sono stato prigioniero della mia stessa sfida»
A. Wenger
Come tutti i grandi eroi anche i nostri hanno una nemesi, o perfino due. Wenger nella sua lunghissima esperienza a Londra ha dovuto fronteggiare avversari dal calibro internazionale. La sfida dal sapore più speciale di altre, per il valore storico-culturale intrinseco nei due personaggi, è sicuramente quella che ha visto Arsène, Cavaliere (poi Ufficiale) dell’Ordine della Legion d’Onore francese, confrontarsi nientepopodimeno che con il Commendatore dell’Ordine dell’Impero britannico, lo scozzese Sir Alexander (per gli amici Alex) Chapman Ferguson, il quale ha guidato il suo Manchester United per ben 27 stagioni consecutive. Da ricordare tra i suoi più grandi rivali lo Special One, José Mourinho, con il quale si è spesso ritrovato a battibeccare dentro e fuori il rettangolo di gioco. Forse sta proprio qua la differenza più significativa tra Wenger e Conte: la caratura degli avversari. Infatti, il premier italiano per il momento ha combattuto le sue più grandi battaglie contro la chimera bicefala detta ‘Matteo‘, che non di rado si lascia andare ad atti di autolesionismo.
Qui potrebbe terminare il nostro racconto. La lunga notte oscura di Conte lo ha portato allo scontro in campo aperto con Matteo Renzi, fino alle dimissioni. Wenger ha continuato la sua carriera all’Arsenal fino alla stagione 2017-2018, conquistando altre tre coppe d’Inghilterra ma senza mai avvicinarsi nemmeno lontanamente ai livelli del grande Arsenal dei record. Un Conte ter potrebbe rinforzare ancora di più il paragone tra i due: entrambi in giacca e cravatta alla guida della stessa squadra per anni e anni, capaci di superare in un modo o nell’altro grandi difficoltà e lunghi periodi senza luce a dispetto di sinistre previsioni. Tuttavia, se ciò non dovesse accadere, si confermerebbe la leggenda dell’Arsenal di Arsène Wenger: l’outsider spesso imitato, ma mai eguagliato.
Questo pezzo si inserisce in un progetto condiviso con i nostri compagni della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano e coordinato dai colleghi di All’Ultimo Banco (che hanno raccolto qui una parte dei contributi sul tema) e Quote Rosa (qui e qui potete trovare gli altri).
Una opinione su "La presidenza Conte come l’Arsenal di Wenger"