Ricky Alvarez ha detto addio al calcio giocato. A 33 anni quello che lascia è una Maravilla spesso intravista, ma mai ammirata. Scelte sbagliate, Inter post triplete e problemi fisici sono riusciti nell’impresa di oscurare un talento puro dal mancino delizioso
Quando un calciatore da un altro campionato approda in Serie A, il tifoso interessato fa sempre due mosse: guardare su YouTube la compilation di “goals and skills” ed esaminare il soprannome che i suoi ex supportes gli hanno affibbiato. Bè, quando l’Inter il 6 luglio 2011 ufficializzò l’acquisto dell’ennesimo talento argentino le aspettative erano alte. Troppo, forse. Ricardo Alvarez portava con sé una Maravilla che il calcio non ha mai potuto realmente ammirare. Una promessa di bellezza e talento che non è stata mantenuta fino in fondo.
Ricardo Gabriel Alvarez, meglio noto come ‘Ricky’, ha giocato la sua ultima partita da calciatore professionista il 4 dicembre 2021. Che non sarebbe più sceso in campo lo aveva annunciato qualche giorno prima: «Troppi problemi fisici». Non giocava in un match ufficiale da più di 4 mesi. Era il 25 luglio, giocò 60 minuti nella sconfitta per 1 a 0 contro il Rosario Central in una partita combattuta e molto fisica che lo ha tenuto ai margini della lotta. Un solo tiro per lui, con quel sinistro che tanto ha ammaliato i suoi tifosi, che è finito di molto fuori dallo specchio della porta. Se era necessario un segnale, bè forse era quello giusto. Ma torniamo al 4 dicembre. A campionato già chiuso e con l’obiettivo stagionale di qualificarsi per la Copa Libertadores raggiunto, il Vélez ospitava in casa il Patronato de Parana. Una partita sulla carta inutile, dedicata agli addii. Quella sera Los fortineros, così si chiamano i tifosi della squadra del barrio Liniers di Buenos Aires, dovevano salutare due dei loro idoli: Thiago Almada e, appunto, Ricky Alvarez. Almada aveva colto così l’occasione di confermare alcuni rumors che stavano circolando da alcuni giorni in Argentina: «Sì, vado ad Atlanta. Voglio provare un’altra esperienza, è ora di partire».
Di Alvarez, invece, si sapeva già da parecchio tempo che prima o poi avrebbe lasciato. «Uno dice dicembre, ma poi dicembre arriva e le emozioni ti assalgono», ha esordito davanti alle telecamere di Olé: «Quando sono tornato al Vélez ho deciso di dare il cento per cento», ma il tempo è stato poco. Al 72esimo minuto Juan Martin Lucero lascia il campo. Entra con il numero 8 la Maravilla di Buenos Aires. Almada gli consegna la fascia da capitano. Alvarez se la stringe al braccio e gioca così gli ultimi venti minuti della sua carriera.
Un contrasto a centrocampo e Alvarez ruba palla a Giorgio Chiellini. La conduce con il mancino alternando il piatto del piede alla suola. Con un passaggio filtrante supera Andrea Barzagli e poi eccolo là. Entrato al 68esimo al posto di Saphir Taider, ci mette 5 minuti per infilare il suo primo pallone in rete alle spalle di Gianluigi Buffon. È il primo di 124 gol con la maglia dell’Inter per Mauro Icardi. Ed è forse la giocata più importante dell’esperienza milanese per la Maravilla argentina. Tra i nerazzurri era arrivato nel luglio 2011 con un costo complessivo di 10,5 milioni di euro. Si trattava della seconda cessione più importante nella storia del Vélez, seconda solo a quella di Mauro Zarate che nel 2007 passò alla qatariota Al-Sadd per 15 milioni. Un incrocio di numeri e carriere che si ripete quell’anno a Milano, dove i due fortineros si ritrovano a giocare di nuovo insieme. L’Inter in quella finestra di mercato perse prima Marco Materazzi, poi anche Goran Pandev e Samuel Eto’o. Tre uomini chiave di quella notte di Madrid lontana solo due stagioni.
Torniamo a quel 6 luglio. Alvarez ha 19 anni ed è appena atterrato a Milano: «È un sogno. Sono qui per vincere la Champions. Ho sempre tifato Inter». Sembrano le tipiche frasi fatte, quelle che sentiamo ripetere alla stragrande maggioranza di giovani talenti che approdano in un club di caratura mondiale. Ma forse per un ragazzo argentino cresciuto con il mito di Esteban Cambiasso, con il quale scattò anche una foto quando aveva solo 12 anni, arrivare all’Inter era davvero un sogno. Di fatto era (ed è tutt’ora) l’ultima squadra ad aver vinto una Champions League e, come ammesso da lui stesso, da bambino aveva sempre con sé una maglia nerazzurra. Insomma, le aspettative c’erano da entrambi i fronti: tifosi e calciatore. L’Inter, però, non era più quella di José Mourinho. I problemi erano numerosi: dalle stelle del triplete insostituibili ma che piano piano se ne andavano, alla situazione economica non proprio idonea a un ricambio generazionale. Ciò che mancava di più, però, era quella carismatica guida portoghese.
Non siamo qui per parlare degli anni più bui della storia recente dell’Inter (ci sarà modo e occasione in futuro), ma fare un rapido conto degli allenatori che Alvarez vide passarsi difronte nei suoi tre anni a Milano può aiutare a comprendere perché non abbia mai realmente espresso il suo potenziale. Gian Piero Gasperini durò quattro giornate. Divenne così l’unico allenatore nella storia interista a non aver mai vinto neanche una partita. Inoltre, si rese colpevole (oltre a una difesa a 3 del tutto inventata) di un efferato errore che nessun tifoso gli perdonerà mai: Wesley Sneijder mediano. L’esperto Claudio Ranieri non riuscì a terminare la stagione, perché per le ultime nove partite verrà sostituito dal giovane Andrea Stramaccioni. Portato via da una Primavera che faceva luccicare gli occhi, l’allenatore romano riuscì a dare una parvenza di stabilità completando la stagione 2012/2013. Concluse però al nono posto, realizzando il poco invidiabile record di sconfitte in Serie A della storia della squadra: 16. Così fu chiamato al suo posto Walter Mazzarri e il suo rigido 3-5-2 che portò i nerazzurri al quinto posto nella stagione successiva.
Torniamo ad Alvarez. Alcune giocate di classe pura le ha mostrate nei suoi tre anni italiani. Non abbastanza, però, da convincere la società a puntare su di lui. Quanto basta, invece, da essere chiamato in nazionale. L’allenatore all’epoca era Alejandro Sabella: centrocampista argentino di buon livello che giocò la sua intera carriera in Sud America e deceduto pochi giorni dopo Diego Maradona. Viene chiamato a fare il ct dell’Albiceleste nel 2011, dopo un’esperienza nella squadra dell’Al-Jazira, e diede vita a una nazionale che aveva il diritto e il dovere di puntare al terzo titolo mondiale. A comporre l’attacco c’erano: Lionel Messi, Gonzalo Higuain, Ezequiel Lavezzi, Sergio Aguero, Rodrigo Palacio e Di Maria. A centrocampo, tra gli altri: Lucas Biglia, Javier Mascherano, Gago. E poi c’era lui, Ricky Alvarez, il jolly, nascosto dietro l’ombra del gigante di Rosario e che scenderà in campo una volta sola, contro la Nigeria. Il mondiale di Brasile 2014 si concluderà con la vittoria della Germania, che riuscì a superare proprio la squadra di Sabella per 1 a 0 con gol nei supplementari di Mario Gotze.
Per la Maravilla di Buenos Aires quell’estate segnò un punto di svolta: la medaglia d’argento in Brasile e il nuovo trasferimento. Convinto delle proprie capacità e ormai ai margini del progetto nerazzurro, Alvarez decise di accettare la sfida della Premier League. Tra tutti, c’era un club che lo voleva a tutti i costi, anzi un allenatore: Gustavo Poyet. Nato a Montevideo, aveva da poco sostituito Paolo Di Canio sulla panchina del Sunderland riuscendo nell’impresa di tenere la squadra un altro anno nella massima serie. «Spacca le difese avversarie come pochi», assicurava l’allenatore. Purtroppo, però, non aveva fatto i conti con il carico di lavoro che il campionato inglese ti costringe ad affrontare per mantenere un ritmo gara che in Italia è estraneo. Ecco che i piccoli problemi fisici che hanno sempre accompagnato Alvarez nella sua carriera ne diventano protagonisti. Inter e Sunderland finirono più volte in tribunale a causa sua: gli inglesi avevano accettato di pagare i 10,5 milioni di euro chiesti dai milanesi (la stessa cifra dell’acquisto dal Vélez) per il suo cartellino, ma solo in caso di salvezza. Quell’anno il Sunderland si salvò, ma le 17 presenze messe insieme da Alvarez in cui segnò una sola rete non furono sufficienti e si rifiutarono così di riscattarlo. La risoluzione della disputa a tre (Sunderland, Inter e Alvarez) si risolse solo il 16 gennaio 2021 quando il Tas condannò gli inglesi a pagare quasi 5 milioni di sterline al centrocampista per la risoluzione del contratto.
L’epopea europea non finì in Inghilterra. Prima del suo ultimo ritorno al Vélez, infatti, ci sono altre due disavventure. La prima ha come scenario Genova. O meglio, la Genova blucerchiata. Dopo alcuni mesi da svincolato, firma nel gennaio 2016 per la Sampdoria. Quell’anno la squadra di Massimo Ferrero aveva un attacco che a guardarlo con gli occhi del 2021 fa rabbrividire: Luis Muriel, Bruno Fernandes, Patrick Schick, Fabio Quagliarella e Antonio Cassano fino a gennaio (oltre a uno sbarbato Milan Skriniar in difesa). Ebbene, con Marco Giampaolo in panchina questa squadra arrivò appena decima e fu capace di prendere 7 gol all’Olimpico contro la Lazio. Un copione che in linea di massima si ripeté l’anno successivo. Anche nel 2017/2018 la Samp era dotata di una fase offensiva degna di nota: a Schick e Quagliarella si aggiunsero Gianluca Caprari, Duvan Zapata e Federico Bonazzoli. Tuttavia, il reparto più affascinante era quello che sulla carta non esiste. Quella zona tra centrocampo e attacco che solo il talento e la tecnica sopraffina possono colmare. La porzione di campo che Alvarez ha cercato per la sua intera carriera di intrepretare a modo suo, un po’ incontrista un po’ fantasista, e che a Genova incontrò un alleato: Gaston Ramirez.
Gaston ha due anni in più di Ricky. I due condividono un sogno mai realizzato, una promessa mai mantenuta. Dall’Uruguay portò con sé il soprannome di El trascendental, ma non è mai riuscito a dimostrare le sue qualità nei grandi palcoscenici del calcio. Dal Penarol sbarcò a Bologna per 3 milioni di euro, poi altre esperienze non molto emozionanti in Inghilterra. Se per Alvarez la Sampdoria era un modo per tornare alla ribalta, per Ramirez era l’occasione della vita. Nel primo anno blucerchiato l’uruguayo segna solo 3 gol, ma fornisce ben 9 assist. Forse la stagione migliore, anche se nella 2019/2020 ha segnato 7 gol. Ramirez ha un mancino unico: calci piazzati, d’angolo, cross, passaggi in profondità…
Quella Sampdoria poteva vantare di due trequartisti dal piede sopraffino. Tuttavia, giocheranno pochissimo insieme. Alvarez scese in campo per poco più di 250 minuti in quella stagione e quello che poteva essere un reparto da sogno, è rimasto tale: un sogno.
Ed ecco che Alvarez è di nuovo a spasso. Questa volta dice: «Basta», e torna in Sud America. In Messico però. All’Atlas Guadalajara. Il problema è che non lo aveva ancora comunicato a nessuno. Anzi, a giugno 2018 l’Atlas aveva annunciato ai propri tifosi il suo acquisto e il Racing, secondo alcuni media argentini, erano intenzionati a contenderglielo. Purtroppo, però, che alla Sampdoria non arrivò nessuna offerta. La vicenda si risolse con la rescissione del contratto e la firma per l’Atlas. Qui i tifosi erano divisi: un grande talento incompreso era tornato nel continente o un flop era scappato dopo un insuccesso europeo? In Messico giocò in totale 900 minuti in due anni, l’equivalente di 10 partite, segnano 2 reti. Lascerà il club di Guadalajara nel gennaio 2020.
Una promessa mai mantenuta, ma che poi si è rivelata una promessa falsa. Il soprannome di ‘Maravilla’ non glielo avevano dato per le sue capacità in campo. In Argentina, infatti, tra gli anni ’90 e ’80 andava di moda un altro Ricky, un cantante: Ricky Maravilla.